Non tutte le automobili arrivano in ogni mercato: ecco la storia della sportiva giapponese che non è mai sbarcata in Italia.
Il mondo automobilistico è pieno di vetture, ma non tutte raggiungono ogni mercato del mondo. Spesso, infatti, le case tendono a differenziare i loro prodotti scegliendo modelli per un mercato piuttosto che per un altro o, addirittura, creando versioni speciali per una determinata nazione.
Specialmente le case automobilistiche extra europee, come quelle giapponesi o americane, nella maggior parte dei casi creano modelli per il mercato interno destinando al Vecchio Continente solo alcuni dei modelli. Tra questi, in passato, ce n’è stato uno che, nonostante il nome chiaramente ispirato all’Italia, non è mai sbarcato sul mercato del Belpaese.
Era il 1989 quando, al Salone di Tokyo, gli addetti ai lavori posarono per la prima volta gli occhi su Suzuki Cappuccino. Una vettura sportiva per l’epoca che rientrava nella vasta famiglia delle “Keicar”, vetture prodotte in Giappone rispettando rigide norme regolamentari; queste auto, infatti, per ottenere vantaggi fiscali e altre agevolazioni, non devono superare i 3,3 metri di lunghezza e 1,4 di larghezza, mentre la cilindrata va contenuta entro i 660 cc per una potenza massima di 64 CV.
Con un nome chiaramente ispirato all’Italia, Suzuki Cappuccino era una piccola roadster che riprendeva, seppur in formato ridotto, le classiche forme delle spider europee con un lungo cofano, una conda tondeggiante, i cerchi in lega e le doppie prese d’aria posizionate sui parafanghi anteriori. Nell’abitacolo, invece, ecco il volante a tre razze e la strumentazione ad elementi circolari, anche questa tipica delle vetture europee. Il motore, che doveva rientrare nei vincoli imposti dalla legge, era invece un tre cilindri bialbero a camme in testa dodici valvole di 657 cc, sovralimentato con turbocompressore e con cambio manuale a 5 marce che consentiva alla mini roadster di raggiungere i 150 km/h mentre la trazione posteriore e l’impianto frenante a quattro dischi e ABS, davano l’idea di una vettura di categoria superiore.
Con queste prerogative lo sbarco nel Vecchio Continente, Italia compresa, sembrava quasi scontato, ma Suzuki decise di riservare la vettura solamente al mercato interno. neanche il discreto successo ottenuto, tanto da essere prodotta fino al 1998, convinse i vetrici dell’azienda nipponica a provare l’esperienza sul mercato italiano. L’unico mercato europee dove Suzuki Cappuccino sbarcò, sfruttando la sua impostazione con guida a destra, fu quello della Gran Bretagna, ma le vendite non andranno oltre il migliaio di unità facendo credere al gruppo giapponese di aver fatto la scelta giusta rimanendo sul mercato interno.
In Italia delle varie spider “Keicar” giapponesi arriverà soltanto la diretta rivale Daihatsu Copen, con cilindrata maggiorata e guida a sinistra, senza però risultati commerciali degni di nota. Un ulteriore segnale di come alcune automobili possano funzionare bene solo in determinati mercati; forse Suzuki Cappuccino, anche sfruttando il nome, avrebbe potuto essere l’eccezione che conferma la regola, ma Suzuki decise di non rischiare lasciando agli appassionati solo il ricordo di un vettura chiamata come la bevanda italiana più celebre al mondo.