KTM, il gigante austriaco delle due ruote, sta scivolando in una crisi già vissuta, e apparentemente senza ritorno
Per chi ha memoria e amore per i motori la crisi devastante di KTM non ha nulla di inedito. Corsi e ricorsi di una storia che si avvita su stessa e sembra non volersi risolvere mai. L’ansia dei lavoratori, la frustastrazione degli sportivi, i dubbi per il futuro economico e sportivo non si diradano.
L’aria è pesante negli uffici KTM. I numeri non tornano e i magazzini sono stracolmi: nessuno avrebbe immaginato un finale del genere quando Stefan Pierer salvò l’azienda nel 1991. In questi trent’anni le moto arancioni hanno dominato rally e motocross, conquistato mercati, comprato marchi storici. Eppure qualcosa si è rotto negli ingranaggi di questa macchina perfetta.
Tutto iniziò in un’officina nel 1934. Hans Trunkenpolz riparava moto e auto, sognava di costruirle e le prime KTM nacquero così, da quell’intuizione. Le vittorie arrivarono presto. In Italia fu Arnaldo Farioli a credere nel marchio: da Bergamo le moto austriache conquistarono il paese.
Gli anni ’80 portarono innovazioni continue: KTM introduceva il raffreddamento a liquido mentre gli altri ci pensavano ancora. I freni a disco arrivarono su tutte le ruote e per questo l’azienda cresceva veloce, forse troppo. Nel 1991 il primo tonfo: debiti per 70 milioni di euro.
Pierer arrivò come un cavaliere bianco. Rilevò la divisione moto, lanciò la Duke 620, scelse l’arancione come colore simbolo. Le vittorie tornarono: Dakar, motocross, rally. Tony Cairoli vinse sei mondiali con quelle moto e sembrava l’inizio di un’epoca d’oro. Purtroppo i nuovi tempi d’oro non sono durati.
L’appetito di KTM è cresciuto insieme ai successi: vennero acquistati Husqvarna, poi GasGas, poi l’ingresso in MV Agusta. Infine la svolta nelle nelle bici elettriche, con fabbriche ovunque: Bulgaria, Colombia, Brasile. Un fiume di soldi, una vera emorragia, che non è stata premiata dai ritorni economici.
I risultati non sono arrivati. Oggi 265.000 moto giacciono invendute. Le bici elettriche vendono, ma 150.000 pezzi non possono bastare a salvare un gruppo al collasso. Gli stabilimenti costano troppo, il mercato frena e KTM è costretta a vendere pezzi di impero per sopravvivere.
L’azienda che correva più veloce di tutti ora arranca e rischia di fermarsi del tutto. Gli investimenti sbagliati pesano come zavorre. Il gruppo scivola verso una nuova crisi, più profonda di quella del ’91. Stavolta non si vede un cavaliere bianco all’orizzonte.
Le moto arancioni hanno scritto la storia del fuoristrada, hanno vinto nel deserto e nel fango e ora devono vincere la gara più difficile: quella contro i conti in passivo drammatico. Il rombo dei motori KTM si fa più debole, come quello di una moto che sta finendo la benzina. Nel paddock del motomondiale si respira preoccupazione: nessuno vuole vedere un altro marchio storico che chiude i battenti. Ma il rischio oggi è proprio questo.